Peter A. Kwasniewski
1. L’antinomia contemporanea
È un ben noto assioma dell’ etica tomistica che, qualunque bene si ami, lo si ama come bene proprio (bonum suum). Ma allora come può esservi una vera extasis, un vero andare fuori da se stessi per amore di un altro?[1] Come può esservi autentico amore dell’ altro per l’altro? L’amore non si riduce a egoismo? E l’unica alternativa pratica o teorica non sarebbe l’altruismo, cioè una sorta di spontaneo donare agli altri senza alcun riferimento a sestessi e al proprio bene?
Lo stato democratico liberale e lo stato collettivista o comunista sono gigantesche incarnazioni sociali dell’ antinomia apparentemente ineludibile fra egoismo e altruismo. L’uno dei due sistemi riduce la motivazione umana all’interesse egoistico, precludendo con ciò la comunione interpersonale, che richiede il dono di sé. L’altro minaccia la felicità umana ignorando la dignità della persona in quanto tale e consentendo di sacrificare l’individuo per un “bene sociale” a lui estraneo. Tutto il clima politico della modernità ci costringe quasi a vedere la realtà come un conflitto insanabile fra egoismo e altruismo.
Poiché la società moderna ha rifiutato le virtù tradizionali in favore del consumismo materialistico e dell’ edonismo, l’uomo moderno, avvezzo a pensare, sentire e agire come consumatore in cerca di piacere, è perciò abituato all’ errore dell’ egoismo e vi è intrappolato dentro. Dal momento che vi sono tanti bisognosi di cui egli non si cura, l’egoista va “costretto” ad aiutare gli altri. A questo proposito penso al socialismo dilagante, ai programmi previdenziali governativi e all’ assistenza sanitaria obbligatoria che hanno perso il posto di una sussidiarietà organica guidata dalla giustizia sociale e dalla carità. Questo welfare state alimenta il cinismo, poi il risentimento e infine la violenza, perché non emerge da una virtù autenticamente posseduta né fa appello ad essa; rappresenta un attacco al mostruoso ego prodotto dalla società moderna. In altri termini, la società moderna instilla l’egoismo anziché la giustizia e la carità, ma poi, riconosciuto che il risultato è disastroso, tenta di obbligare all’ altruismo, che si contrappone all’ egoismo ma al tempo stesso lo rafforza. Il risultato sono tensioni sociali, mancanza di empatia, conflitti civili.
I presupposti di questa diffusa concezione si trovano in quell’influente pensatore politico che è Thomas Hobbes: tutto è strumentale rispetto al mio bene, inteso come bene meramente sensibile; poiché sé = corpo (anzi realtà = corpo), non si può estendere l’amore oltre il sé, oltre il corpo.[2] Per Hobbes tutto ciò che è al di fuori di noi è nel caso peggiore una minaccia contro di noi, nel caso migliore un mezzo rivolto al fine dell’ autoconservazione. Il contratto sociale è un meccanismo che consente a me di ottenere di più di ciò che desidero e al tempo stesso promette a te di ottenere ciò che vuoi. Non possiamo desiderare qualcosa di comune perché non vi è nulla di veramente comune. Ogni bene è bene privato. Quindi non posso “volere il bene di un altro”; non posso volere che un altro stia bene per amor suo. Qualsiasi cosa io voglia per un altro (potenzialmente o attualmente) toglie qualcosa a me.
Hobbes mette a nudo le radici della moderna antinomia fra egoismo e altruismo, fra cui esiste una profonda affinità che si può dimostrare come segue. Se sono egoista, subordino il bene di tutti gli altri al mio bene personale e privato. Se sono altruista, subordino il mio bene a quello che finisce per essere il bene personale e privato di qualcun altro: l’ironia è che l’altruismo, in teoria o in pratica, dipende dal presupposto fondamentale dell’ egoismo, e cioè che il mio bene e il tuo bene si escludano semplicemente a vicenda, e che io possa aiutare te solo a spese del mio bene. Ambedue le alternative sono irrazionali, anzi anticristiane: comportano infatti l’ordinamento indiscriminato degli altri a sé o di sé agli altri.
Questa contrapposizione fra egoismo e altruismo è del tutto estranea alla dottrina dell’amore di san Tommaso. Nel suo sottile realismo, Tommaso coglie bene il rapporto fra il mio bene, il bene altrui e la fonte trascendente di ogni bene, cioè il Dio tripersonale. La perfezione umana non consiste né nella realizzazione di un sé isolato dagli altri, né in una radicale negazione delvalore e dell’individualità della persona. La perfezione dell’uomo consiste nel dare se stesso a Dio e al prossimo, andare fuori da se stesso verso r altro in un’ oblazione dimentica di sé che è anche la vetta della perfezione di sé, perché comporta comunicazione nel bene comune. Questa dottrina offre un’autentica alternativa ai tediosi dibattiti su egoismo e altruismo, interesse egoistico e beneficenza spontanea.[3]
2. L’io umano non è isolato dagli altri
2.1. La generosità estatica come regola della creazione
Cominciamo con l’osservazione che l’io umano non è isolato dagli altri nella sua realizzazione, bensì propende naturalmente verso ciò che chiamo …. generosità estatica”. Insito nella natura umana—o più precisamente nella sua voluntas ut natura—è l’amore del bene in quanto tale. In quanto essere che è ed è buono tramite la partecipazione, l’uomo dipende dal semplice Bene ed è naturalmente ordinato ad esso; è pertanto incline, già prima della scelta, a vivere più autenticamente in e per Dio che in e per se stesso. Le numerose manifestazioni consce dell’ extasis seguono a quest’innata extasis di essere creato a essere increato, di bene finito a Bene infinito, di copia a originale, di immagine imperfetta a Immagine perfetta. L’extasis ontologica precede e sostiene 1’extasis psicologica come la natura precede la potenza e la potenza precede l’attività.
Al pari di tutte le creature, l’uomo ha capacità estatica (Dionigi la definisce eros), perché è fatto a immagine del Dio onnipotente il cui amore generoso crea, conserva e governa il mondo. Il Dio che non esce fuori da Se stesso perché Egli è ovunque, da nulla trattenuto, è l’Amante i cui effetti sono maggiormente estatici, perché Egli crea gli esseri stessi per mezzo dell’amore e poi induce in essi l’extasis di un amore corrispondente. Nella Sua bontà sovrabbondante, grazie alla quale Egli resta in Se stesso, Egli crea un mondo di esseri i quali, in misura maggiore e minore, escono fuori da se stessi, imitando Lui.[4]
Dio ha fatto le creature perché non fossero soltanto destinatarie di bene, ma anche fonti di bene. Ens creatum, 1’essere creato, ha non soltanto il lato negativo della povertà, che provoca appetito per il bene assente, ma anche il lato positivo della ricchezza, che promuove la diffusione del bene agli altri. Come spiega Norris Clarke:
«Gli esseri reali del nostro universo escono da se stessi nell’azione per due motivi: primo, perché sono poveri, nella misura in cui in quanto limitati e imperfetti cercano il completamento di se stes~i da altri esseri; secondo, perché sono ricchi, in quanto esistono attualmente e quindi possiedono qualche grado di perfezione attuale e hanno una tendenza intrinseca a condividerla in qualche maniera con altri».[5]
Come dice 1’assioma, bonum est diffusivum sui. Il bene ha la ratio di essere diffusivo di se stesso.[6] Più un bene è nobile, più essere ha, e più può essere amato non soltanto in sé ma anche come qualcosa di condivisibile, diffusibile, partecipabile. L’infinito bene divino è infinitamente condivisibile e quindi è quanto mai opportuno che il divino amore, che è identico con questo bene, debba liberamente condividerlo facendo essere dei beneficiari dello stesso bene. Poiché il beneficiario creato rispecchia la sua fonte increata e imita la Sua attività—in breve, perché 1’essere creato è estasi mimetica verso Dio—esso è naturalmente idoneo a comunicare se stesso ad altri nel modo in cui ciò è possibile, cioè causando efficientemente in un altro una copia della sua stessa attualità e così condividendo il suo bene. Per questo motivo, è naturale per tutte le cose non soltanto ottenere e conservare il proprio bene, ma anche condividerlo con altri. Tutte le cose, secondo la loro capacità, ne amano naturalmente altre[7] e operano per il loro bene. li passero che nutre i suoi piccoli appena usciti dall’uovo fa nel suo nido qualcosa di analogo a ciò che Dio fa nell’universo: dà qualcosa di buono a qualcuno che dipende da lui, e non per il bene di chi dona, ma di chi dipende. Forse la migliore espressione di questa verità si trova nella Summa contra gentiles:
«Da ciò risulta che nella misura in cui un essere ha una virtù più perfetta, ed è più alto nei gradi della bontà, ha un desiderio più universale del bene, così da cercare e compiere il bene su cose da lui più distanti. Infatti gli esseri imperfetti cercano solo il bene proprio dell’individuo; invece quelli perfetti cercano il bene della specie; quelli più perfetti il bene in genere; e Dio, il quale è perfettissimo nella bontà, vuole il bene di tutti gli esseri. Ecco perché giustamente alcuni affermano che “il bene in quanto tale tende a diffondersi”, poiché quanto più una cosa è migliore, tanto più estende la sua bontà. E poiché “in ciascun genere l’essere più perfetto è modello e misura di tutti gli esseri che appartengono a questo genere”, è necessario che Dio, il quale è perfettissimo nella bontà che espande più di ogni altro, sia il modello delle creature che diffondono il bene. Ma in quanto ciascuna cosa diffonde su altre la bontà, ne diviene la causa. Perciò è pure evidente che ciascun essere, nel tendere ad essere causa delle altre cose, tende a una somiglianza con Dio, e tuttavia tende al proprio bene».[8]
Quanto più elevata la creatura, tanto più dà di se stessa, perché ha più sé all’ origine del dare. «La parola “amicizia”», dice san Tommaso, «si applica propriamente a un amore che si diffonde agli altri».[9]
2.2. La natura non è intrinsecamente egoista
Ecco la radice dell’ energico dissenso di san Tommaso da un assioma che può essere ricondotto a scolastici precedenti e, risalendo ancor più indietro, a san Bernardo: natura semper in se curva est, ovvero natura est recurva in se ipsa.[10] Un’affermazione nettissima di questo assioma si trova in sant’Alberto Magno: «L’amore di concupiscenza appartiene alla natura, che è sempre ripiegata su se stessa; e qualsiasi cosa ami, lo riconduce a se stessa, cioè al suo bene proprio, privato; e a meno che la grazia non la faccia liberamente elevare al di sopra di se stessa, tutto ciò che ama lo riconduce al suo proprio bene, e ama per amore di se stessa».[11]
Ciò che disturba san Tommaso non è l’idea che qualche amore possa essere autoreferenziale, ma che l’amore naturale in quanto tale meriti di essere definito cosÌ. Perché se l’amore naturale è necessariamente diretto verso di sé, allora qualsiasi genere di amore per gli altri, qualsiasi extasis, non soltanto è esclusivamente frutto della grazia ma è anche contrario alla natura, distruttivo dell’ordine degli appetiti. Abbiamo visto che, per san Tommaso, l’appetito è costruito lungo linee estatiche, e persino nei casi più chiari di appetito autoreferenziale—come l’elettrone che balza in cerca di un luogo più stabile, l’animale che ha fame di cibo o la pianta che si protende verso la luce del sole—la creatura, senza saperlo o volerlo, cerca l’assimilazione a Dio, consolidando il suo essere fatta a immagine di Dio. Ma questo processo non è isolato e introspettivo: è comune ed estroverso. La creatura, spontaneamente e naturalmente, non è meno incline a condividere il suo bene che a preservarlo e accrescerlo. Per dirla con san Tommaso: «Le cose naturali hanno un’inclinazione non soltanto rispetto al proprio bene—ad acquistarlo quando non lo hanno, a riposare in esso quando lo hanno—ma anche, per quanto possibile, a riversare bene negli altri».[12]
L’amore comporta sempre una trascendenza estatica, che si tratti della totale oblazione della creatura nei confronti del Creatore, della reverenza gerarchicamente proporzionata di ogni inferiore verso il suo superiore, dell’ affetto e dell’ aiuto reciproco fra uguali uniti nell’ amicizia, o della graziosa condiscendenza di un superiore verso l’inferiore che dipende dal superiore per il proprio essere o benessere. Pertanto amore ed estasi non sono compagni per caso, ma la seconda è il segno infallibile della specie, della qualità e dell’intensità del primo. Se un uomo si può riconoscere dalle compagnie che frequenta, l’amore si può riconoscere dall’estasi che suscita. La partecipazione dell’ amore alla realtà personale, spirituale è determinata dalla presenza di dedizione e dono estatico. L’amore delle cose come strumenti o perfezioni accidentali genera un amore quasi-estatico che va verso l’esterno solo per poi ritornare verso l’interno recando doni per il soggetto. L’amore delle persone per amor loro genera un amore autenticamente estatico, che reca il sé in dono a un altro soggetto, sotto forma di condivisione di una vita comune che aspira soprattutto ai beni comuni. L’estasi verso l’altro abbraccia tutto e tutto consuma in un unico amore: l’amore incondizionato dell’uomo o dell’angelo per il suo divino Signore, nel quale si trova ogni bene, al quale ogni culto è dovuto. Come spiega David Gallagher:
«Conformemente alla sua dottrina della partecipazione, T ommaso sostiene che le perfezioni di tutte le creature, esseri razionali compresi, si trovano più perfettamente nella fonte non-partecipata che nei soggetti partecipanti. Proprio questo serve a spiegare l’amore di Dio per amor Suo (amor amicitiae) anche più dell’io. Lo stesso bene che uno ama se stesso si trova più perfettamente nella fonte increata di quel bene [ … ]. Così, troviamo più piacere (cioè abbiamo più complacentia) nel nostro bene così come esiste in Dio che così come esiste in noi stessi, e di conseguenza amiamo Dio ancor più che noi stessi. Ciò si potrebbe esprimere anche così: il bene completo del tutto che è Dio è mio bene più del bene particolare e parziale che io in quanto bene particolare sussistente possiedo. Dio, in quanto pura fonte di ogni bene, è più amabile di qualsiasi bene particolare, anche di noi stessi».[13]
Abbiamo cominciato col dire che l’io umano non è isolato dagli altri nella sua realizzazione, e qui troviamo il modo più diretto di dimostrare perché: la creatura è incline ad amare il bene comune, che è più come il Dio che è naturalmente amato, rispetto al suo bene privato, che Lo imita di meno e pertanto è meno il bene della creatura e meno amato. Se l’amore naturale non fosse già, in qualche misura, estatico, l’amor amicitiae—amore di amicizia—sarebbe impossibile indipendentemente dalla grazia. Si potrebbe dir cosÌ: l’egoismo, l’esaltazione del privato sul comune, è soltanto una corruzione e non è mai naturale.[14] L’intera vita morale, e forse addirittura l’intero essere creato, è così soffusa di una luce nuova: tutte le relazioni, salvo per la relazione meramente logica dell’io con l’io, sono governate dalla legge della comunicazione estatica, che varia per potenza così come le relative variano per peso dell’ essere, per dignità della sussistenza.
3. Il sé umano si realizza nel bene comune
3. 1. Beni comuni e beni privati
Fin qui, nelle nostre riflessioni, abbiamo visto che il modo in cui è presentato di solito “il problema dell’ amore” — cioè che occorre restare fedeli o all’altruismo o all’egoismo—comporta fin dall’inizio una falsa contrapposizione costruita su una metafisica superficiale. Poiché nessuna delle due posizioni riconosce la generosità estatica come norma della creazione, nessuna delle due riconosce la fondamentale distinzione fra beni privati, che non possono essere condivisi da molti, e beni comuni, che possono essere condivisi da molti. A questa distinzione ci vogliamo adesso.
Come abbiamo visto nel caso di Hobbes, il fondamento della moderna antinomia egoismo/altruismo è la concezione secondo cui realtà = corpo. Ma in effetti Hobbes si sbagliava: ometteva cioè la sfera della razionalità. Poiché noi uomini siamo animali razionali, siamo uniti da beni spirituali tramite le loro manifestazioni sensibili. Non possiamo mangiare lo stesso pezzo di carne, ma possiamo condividere lo stesso pasto. Non possiamo usare lo stesso cucchiaio, ma possiamo vivere da fratelli sotto lo stesso tetto. Non possiamo pronunciare la stessa parola, ma possiamo condividere una conversazione che ci lega nella ricerca della verità o nel suo gioioso raggiungimento. Non possiamo vedere con gli stessi occhi né udire con le stesse orecchie, ma la bellezza intelligibile che sta sotto la bellezza visibile o udibile può penetrare tutta la nostra anima di modo che siamo attirati verso di essa con un’ammirazione e un piacere condivisi. Non possiamo pensare lo stesso pensiero, ma le nostre menti si possono conformare allo stesso oggetto ed essere così unite nella verità.
In tutti questi modi diventiamo uno anche se siamo molti. Essere razionali significa poter entrare in beni che trascendono l’ordine materiale, lo hic et nunc. Ciò significa che possiamo essere un “uno-molti”: non una semplice unità come lo è Dio, né una molteplicità sempre mutevole come lo sono le cose materiali, ma una pluralità unificata in e tramite l’aderenza a un bene superiore. L’amicizia è “due-come-uno”, “molti-come-uno”. Gli animali del campo possono essere insieme nello stesso luogo, ma non possono essere davvero uno. Soltanto le persone, create a immagine del Dio Trinitario, hanno il divino potere di formare una realtà interpersonale, una communio o koinonia che abbraccia e conferisce il senso ultimo alla loro peculiarità, ai loro sé separati. Tale communio sarà intrinsecamente spirituale, fondata sui beni spirituali e a essi ordinata.
Quest’ultimo punto merita un’attenta riflessione. San Tommaso osserva che«i beni spirituali sono più comunicabili di quelli corporali».[15] La proposizione inversa a questa è formulata da R. Garrigou-Lagrange come “una veritàspesso pronunciata da Sant’Agostino e da san Tommaso”, e cioè: “Contrariamente ai beni spirituali, i beni materiali dividono gli uomini perché non possono appartenere simultaneamente e integralmente a molti.” Garrigou-Lagrange spiega:
«Una molteplicità di persone non può possedere integralmente e simultaneamente la stessa casa, lo stesso campo, lo stesso territorio; dal che scaturiscono dissensi, liti, azioni legali, guerre. Al contrario i beni spirituali, come la verità, la virtù, Dio Stesso, possono appartenere simultaneamente e integralmente a molti; molte persone possono possedere simultaneamente la stessa virtù, la stessa verità, lo stesso Dio che Si dà interamente a ciascuno di noi nella [Santa] Comunione. Pertanto, mentre la ricerca sfrenata di beni materiali divide profondamente gli uomini, la ricerca dei beni spirituali li unisce. E ci unisce tanto più strettamente quanto più ricerchiamo questi beni superiori. Addirittura, possediamo Dio tanto più quanto più Lo diamo agli altri. Quando regaliamo del denaro, non lo possediamo più; al contrario, quando diamo Dio alle anime, non Lo perdiamo, ma piuttosto Lo possediamo di più. E se dovessimo rifiutare di darLo a chi ce Lo chiede, Lo perderemmo».[16]
Il fatto che Garrigou-Lagrange menzioni Sant’Agostino ci ricorda un brnoso passo del Libro XII delle Confessioni, dove Agostino mette in contrapposizione chi interpreta le Scritture per superbia e chi le interpreta per carità. I superbi, dice,
«amano la loro
[idea]
non perché sia vera, ma perché è la loro. Diversamente amerebbero allo stesso modo anche la verità degli altri, come io amo le loro asserzioni quando sono vere, non perché sono loro, ma perché sono vere, e in quanto vere non sono più nemmeno loro. Se poi l’amano in quanto vere, ormai sono e loro e mie, essendo un bene comune di tutti gli amanti della verità [ … ]. Perché la tua verità non appartiene né a me né a chiunque altro, ma a tutti noi, e tu ci chiami pubblicamente a parteciparne, con questo terribile avvertimento, di non pretenderne il possesso privato per non esserne privati. Chiunque rivendica come proprio ciò che tu metti a disposizione di tutti, e pretende di detenere ciò che a tutti appartiene, viene respinto dal patrimonio comune verso il suo, ossia dalla verità verso la menzogna. Chi infatti dice una menzogna, dice del suo (Gv 8,44).[17]
La verità è il tipo di bene che si può avere soltanto se non lo si ha come proprio, come di proprietà. Nel momento in cui tale bene è requisito come privato, cessa di essere vero; diventa una verità falsificata o distorta, una mezza verità o una non verità. È per questo che la verità del credo cristiano, o anche l’atto di eroico sacrificio, non è nulla senza carità, come insegna san Paolo (1 Cor 13). Benché queste cose siano buone e vere astrattamente, sono buone e vere concretamente, per il soggetto, solo quando questo le abbraccia con una volontà buona, cioè a dire, con il giusto amore di sé, quello che richiede l’amore di Dio e del prossimo.
È in questo contesto che diviene evidente il fondamentale rapporto fra bonum privatum e bonum commune: il bene comune, rettamente inteso, non è qualcosa che sta al disopra e oltre ciò che è “buono per me” personalmente; è proprio ciò che semplicemente è meglio per me ed è perfettivo di me. Ciò che è più comunemente condivisibile è, nell’ essere condiviso, più benefico per tutti coloro che ne partecipano.[18]
Il “proprio bene” non soltanto permette, ma richiede che il proprio sé si amplifichi amando gli altri per amor loro, il che comporta amare beni veramente comuni a molti. Il mio bene come persona è più dei beni privati o delle perfezioni che io possiedo. La mia identità cresce, la mia bontà è amplificata quando mio unisco affettivamente a un’altra persona o a una comunità in un amore che ricerca il bene di questo altro per amor suo.
Come tante verità basilari, suona paradossale. Il mio bene non è semplicemente il bene mio, ma comprende il tuo bene; invero il nostro bene è ciò che è buono per me più autenticamente di qualsiasi bene che sia solo mio. La base di un’amicizia veramente umana è l’unione delle menti o degli spiriti tramite beni che sono comuni, comunicabili e inesauribili; una relazione siffatta ha la potenzialità di una crescita e di una fruizione continua. I beni materiali, che sono intrinsecamente privati (cioè condivisibili soltanto per predicazione), divisibili, esauribili e potenzialmente causa di divisione, nonpossono costituire una base stabile per l’amicizia.
L’amore autentico non soltanto costruisce l’unione personale, ma disuugge tutto ciò che con essa è incompatibile. L’amore non soltanto fa sÌ che gli amici siano radicati nel bene comune, ma li sradica da qualsiasi bene privato si frapponga alla comunione. Per unire, l’amore divide anche; costringe l’uomo a cessare di stare attaccato a se stesso cosÌ da potersi attaccare a un altro—così che possa dedicare il suo tempo, le sue energie, le sue azioni, i suoi possedimenti ad altri. Gli amici non si fondono mai nell’identità numerica, ma entrano in autentica comunione fra loro attraverso il potere unificante, trasformativo dell’ amore. Quando una persona ne ama un’ altra come ama se stessa, si ritrova al di fuori di se stessa amando e promuovendo il bene dell’ altra come il suo proprio. La sua identità si colora, e finisce per trasfigurarsi, per mezzo di un’ azione estatica.
3.2. Amore di sé buono e amore di sé cattivo: la verità che si cela dietro l’antinomia moderna
Abbiamo esposto e confutato a grandi linee la presunta antinomia fra egoismo e altruismo, ma ora dobbiamo ammettere che la sua persuasività per l’uomo moderno affonda le radici, almeno in parte, nella sua rassomiglianza alla verità circa la nostra condizione di peccatori. N ella nostra esperienza, vi è—o spesso può esservi—un vero conflitto fra amore di sé e amore dell’altro. Questa nostra esperienza va spiegata da una risposta esauriente alla contrapposizione fra egoismo e altruismo. E allora, quale vera contrapposizione c’è fra e di sé e amore dell’altro?
Cominceremo con il ricordare qualcosa che abbiamo già detto: il bene che è più il mio bene—il bene divino, che è di per sé infinitamente comune—è ontologicamente altro da me e può farmi del bene soltanto quando è amato per se stesso e in quanto condivisibile da tutti. Ciò che è più profondo nel causare la perfezione, intimamente presente a tutte le cose, comunicando loro l’essere e la bontà, è ciò che più trascende l’io e più esige l’omaggio dell’auto-trascendenza. Il “sé” di cui parla san Tommaso è sempre e più fondamentalmente ordinato a Dio nel Quale il suo stesso bene esiste più perfettamente. Per natura e per grazia, io sono estaticamente ordinato a Dio. L’amore di sé è pertanto inteso come buono o ben ordinato quando—e solo quando—ordina l’uomo a Dio, suo bene vero e finale al di fuori di lui stesso.
Sta qui la differenza essenziale fra il modo in cui l’uomo buono ama se stesso e il modo in cui ama se stesso il malvagio. Secondo san Tommaso, l’uomo buono ama ciò che è più veramente lui stesso -la sua mente, in cui è iscritta l’imago Dei[19]—ordinando le potenze inferiori alle superiori e, se necessario, sacrificando qualcosa dell’inferiore in nome della perfezione più piena del superiore.[20] Invece il malvagio, ordinando tutto alle sue potenze inferiori, contraddittoriamente sacrifica ciò che è più veramente se stesso a cose che sono meno veramente lui stesso. Come osserva san Tommaso:
«L’amore di Dio è fonte di coesione (congregativus), perché riconduce ad unità l’affezione dell’uomo; così le virtù che sono causate dall’amore di Dio sono unite tra di loro. Ma l’amore di sé disgrega (amor sui disgregat) l’affezione dell’uomo in molteplici beni, così che l’uomo ama sé desiderando per sé questi beni temporali che sono molteplici e vari».[21]
Ai loro estremi, i due tipi di amore di sé esauriscono tutte le possibilità della natura umana. Il santo si eleva al disopra di se stesso entrando in beni più grandi, più comuni, più permanenti, che la sua mente abbraccia per mezzo dell’ amore spirituale; il peccatore cade al disotto di se stesso in beni più ristretti, privati, fugaci in cui si dissipa. Colui che ha perso ciò che era meno lui stesso trova ciò che è più lui stesso, cioè l’immagine di Dio, e tramite questa l’unione con Dio; colui che ha trovato ciò che è meno lui stesso perde l’anima, e attraverso questa perdita perde Dio.[22]
Parte della difficoltà di questa discussione è il concetto sfuggente e ambiguo di “sé”. Chi o che cosa è il “sé”? Se lo intendiamo come individualità incarnata, la mia identità umana in quanto peculiarmente mia, la mia interiorità unica in quanto espressa nel mio corpo e tramite esso, allora è evidente che il sé non è precedente, in termini assoluti, a tutto il resto, in particolare agli altri sé. Prima di tutto vi è il mistero della mia origine: io non vengo all’ essere “da me stesso” bensì da altri, entrando in un mondo che mi circonda, e con una natura che mi è data. Poi vi è il mistero della mia socialità. Dall’inizio e lungo tutto l’arco della vita, il proprio sé è intrecciato e plasmato da relazioni con altre persone, relazioni attraverso le quali il sé raggiunge (o manca di raggiungere) la sua maturità e la sua condizione più eccellente. L’agente virtuoso si assoggetta a—ed è pronto a sacrificare la sua vita per—il bene comune, in cui trova massimamente il suo proprio bene, la sua propria identità. La perfezione comporta una dedizione o consacrazione a ciò che è bene in termini assoluti; quindi fa richieste assolute, e l’uomo buono è precisamente quello che ascolta tali richieste per amore della bontà stessa e non in vista di vantaggi privati. Vivendo così, egli «attribuisce a sé le cose più belle sommamente buone» (come dice Aristotele),[23] poiché di un bene comune si partecipa subordinandosi ad esso. Come abbiamo visto nel passo di Sant’ Agostino, un bene comune può essere posseduto soltanto in quanto comune, non “in quanto mio” a esclusione di un altro. Se l’uomo buono deve assegnare il bene più nobile a se stesso, allora deve riferirsi e subordinarsi a quel bene più nobile, il che lo pone nella relazione della parte al tutto.
La distinzione essenziale fra creature razionali è stata voluta da Dio in vista del loro associarsi, formare una società, della loro amicizia e reciproca inabitazione (mutua inhaesio).[24]Ciò che vi è di meglio nell’essere un individuo di natura razionale è che si può entrare in comunione: innanzitutto con Dio, e secondariamente con altre creature razionali e al fine di aderire più pienamente a Dio e di gioire più pienamente in Lui. L’altro diviene “un altro sé”; altrimenti detto, il mio “sé” si espande o si allarga fino a includere altri sé. Considero l’amico parte di ciò che io sono, cosicché il suo bene diventa il mio bene, e pertanto quando opero per il suo bene non faccio qualcosa di estraneo al mio bene. Le persone rimangono ontologicamente distinte, ma quanto più partecipano di ciò che è veramente comune agli esseri razionali, tanto più sviluppano un’unità o communio spirituale che trascende le loro limitazioni individuali e al contempo fa venire fuori l’immagine di Dio nella loro anima. Per le creature, essere parte è l’unico modo di diventare intere.
4. Conclusione: Una società della carità
La dottrina dell’ amore di San T ommaso rende onore in ogni sua parte al carattere paradossale dell’ amore stesso: chi ama è reso perfetto solo quando, e nella misura in cui, ama Dio più di se stesso, cioè ordina se stesso e tutto ciò che è suo a Dio perché Egli è Dio, e ricerca il bene degli altri senza subordinare il loro bene al proprio. La virtù fa tutt’uno col considerare il bene umano primariamente spirituale e comune a molti: l’uomo virtuoso vede se stesso come un “uno-molti”, una componente che ha dei ruoli da svolgere, dei doveri da assolvere e dei diritti da godere. Il vizio fa tutt’uno con il ridurre il bene a beni materiali o corporali che non si possono condividere: l’uomo malvagio si comporta come un ciclope morale, un’isola autosufficiente che non ha esigenze né responsabilità nei confronti degli altri. Se un uomo è virtuoso, è perché è capace di agire per il bene in quanto tale, che può e deve appartenere a molti; se è malvagio, è perché sceglie costantemente di agire per beni che possono essere suoi soltanto, o spesso, a spese altrui (basta pensare alla mentalità abortista della cultura di morte). Come ha sempre sostenuto la dottrina sociale cattolica, l’unico modo di superare la falsa opposizione fra “mio” e “tuo” è acquisire quelle virtù che vedono i beni migliori come “nostri”.
Le due alternative che si escludono a vicenda, egoismo e altruismo, al pari dei loro corrispondenti eros e agape nella concezione di Anders Nygren, sono assolutamente inadeguate fin dall’inizio al compito della spiegazione, e costringono a trarre conclusioni che contrastano sia con la ragionevole riflessione sull’ esperienza, sia con la parola rivelata di Dio.
Nel concludere le mie riflessioni vorrei condividere con voi un magnifico testo di Jacques Maritain. Il pensatore francese individua tre possibilità teoretiche che si potrebbero parafrasare così: 1. auto-assorbimento, morte per contrazione, pura soggettività: in una parola, egoismo; 2. auto-dissoluzione,
morte per espansione, pura oggettività: in una parola, altruismo; 3.resa di sé, vivere di più morendo agli estremi, dispiegamento della soggettività in seno al divino Soggetto: in una parola, carità.
«Se mi abbandono alla prospettiva della soggettività, assorbo ogni cosa dentro di me e, sacrificando tutto alla mia unicità, resto inchiodato all’ assoluto dell’ egoismo e della superbia [leggasi: egoismo sclerotizzato]. Se mi abbandono alla prospettiva dell’ oggettività, resto assorbito in ogni cosa, e dissolvendomi nel mondo, sono falso rispetto alla mia unicità e rinuncio al mio destino [leggasi: altruismo ebbro]. È soltanto dall’ alto
[leggasi: infusione della divina carità]
che si può risolvere l’antinomia. Se Dio esiste, allora non io ma Lui è il centro; e stavolta non in relazione a una certa prospettiva particolare, come quella in cui ciascuna soggettività creata è il centro dell’universo che conosce, bensÌ in termini assoluti, e come soggettività trascendente cui tutte le soggettività sono riferite. In quel momento posso sapere sia che sono privo d’importanza, sia che il mio destino è della massima importanza. Posso sapere questo senza cadere nella superbia, saperlo senza essere falso rispetto alla mia unicità. Perché amando il divino Soggetto più di me stesso, è per Lui che amo me stesso, è per fare ciò che Lui desidera che io desidero sopra ogni altra cosa realizzare il mio destino; e perché, privo d’importanza come sono nel mondo, sono importante per Lui; non soltanto io, ma anche tutte le altre soggettività la cui amabilità è rivelata in Lui e per Lui e che sono da qui in poi, insieme con me, un noi chiamato a godere della Sua vita».[25]
In ultima analisi la nostra perfezione consiste nell’
essere ordinati a qualcosa—o meglio: a Qualcuno—che è interior
intimo meo et superior summo nreo,[26] più interno di ciò che è intimo in me e più
alto di ciò che è altissimo in me: la fonte del
mio essere, della mia bontà, del mio essere persona, del mio destino. Ciò che
mi rende perfetto risiede al di là di me, eppure è reso mio dalla carità. Questo Bene non lo prendo in me
assimilandolo come fosse un cibo: sono io a esserne preso e assimilato, insieme
con tutti gli altri che si lasciano attrarre nel suo abbraccio. Questa è la base per una società della carità, una società i
cui membri attualizzano la loro dignità di figli di Dio attraverso il culto
divino, la contemplazione, l’amicizia e il servizio attivo agli umili; una
società che persegue beni autenticamente comuni e ne gode: la verità naturale e
soprannaturale, le virtù morali e intellettuali, la bellezza intangibile delle
belle arti, la gioia di comunità in pace; una società che comincia persino a
conformarsi, da lontano, al luminoso esempio della Beata Trinità, conducendoci ex umbris et imaginibus in veritatem.
* Originally Published in: Juan José Pérez-Soba and Marija Magdic, L’amore principio di vita sociale. “Caritas aedificat” (ICor 8,1), Cantagalli, Siena 2011, pp. 73–87.
[1] Lungo tutta la sua vita di studioso, san Tommaso ha elaborato la sua dottrina dell’ ex tasis amoris in una serie di testi di eccezionale interesse. Per i testi e per la loro analisi critica: cfr. P.A. KWASNIEWSKI, “St. Thomas, Extasis, and Union with the Beloved”, in The Thomist 61/4 (1997) 587-603; ID., The Ecstasy of Love in Aquinas’s Commentary on the Sentences, in Angelicum 83 (2006) 51-93.
[2] Legato a questo è il “culto del corpo” contemporaneo. Questo assume molte e varie forme, che vanno da quelle relativamente innocue a quelle spiritualmente velenose, come la smodata attenzione alle immagini della televisione e delle riviste, l’ossessione per la salute e la forma fisica, i prodotti capitalistici di cura del corpo, le tecnologie medicali sempre più costose e invasive, i tatuaggi e il piercing, la pornografia. Queste forme hanno tutte in comune l’errore di partire dall’idea che il corpo o il sensibile siano il luogo del sé, cioè il luogo dell’ attenzione, della coltivazione e della finalità.
[3] Cfr. D. GALLAGHER, “Gewirth, Sterba, and the ]ustification of Morality”, in M. BOYLAN (ed.), Gewirth: Criticai Essays on Action, Rationality, and Community, Rowman & Littlefield, New York 1999,183-189.
[4] Soltanto in Dio la mancanza di extasis è pura positività, perché non vi è finitezza che Egli debba trascendere per essere Se stesso cosÌ come noi dobbiamo trascendere i nostri limiti se vogliamo entrare appieno in ciò che siamo destinati a essere.
[5] W. NORRIS CLARKE, The One and the Many: A Contemporary Thomistic Metaphysics, University ofNotre Dame Press, Notre Dame 2001,33.
[6] Ecco i testi in cui San Tommaso d’Aquino si rifa a questo assioma: Scriptum super Sententiis, I, d. 34, q. 2, a. 1, ad 4; Summa contra gentiles, I, c. 37 e II, c. 24; Summa theologiae I, q. 5, a. 4 e q. 27, a. 5, ad 2; I-II, q. 1, a. 4, ad 1; II-II, q. 117, a. 6, argo 2 etad 2; Quaestiones disputatae De veritate, q. 21, a. 1, ad 4. Sul principio bonum se communicat, a questo legato; cfr. Super Sent., I, q. 2, q. 1, a. 4, sc.; Super Sent., I, d. 10, q. 1,a. 5, arg. 3 et ad 3; STh., I, q. 19, a. 2 e q. 106, a. 4; STh., II, q. 1, a. 1; Compendium Theologiae I, C. 124.
[7] Il principio di somiglianza sarà importante perché «ogni creatura vivente ama il suo simile, ogni uomo il suo vicino» (Sir 13,15).
[8] SAN TOMMASO D’AQUINO, SCC, III, c. 24.
[9] ID., Super Sent., III, d. 28, a. 6.
[10] ID., Quaestiones quodlibetales q. 1, a. 4, ad. 3; STh., I, q. 60, a. 5; I-II, q. 109, a. 3; II-II, q. 26, a. 3; Super Sent., III, d. 29, a. 1, ad. 3; cfr. R. GARRIGOu-LAGRANGE, The Love of God and the Cross of Jesus, Herder, St. Louis 1947, voI. 1, 89ss.
[11] SANT’ALBERTO MAGNO, Summae Theologiae 2.4.14.4.2., corp., in Opera omnia, vol. 32, Vivès, Paris 1895.
[12] STh., I, q. 19, a. 2.
[13] D. GALLAGHER, “Desire for Beatitude and Love ofFriendship in Thomas Aquinas”, in Medieval 5tudies 58 (1996) 1-47,37.
[14] Il peccato non è soltanto rifiuto della grazia; allivello più profondo è negazione della natura. Il peccato è la privazione o la diminuzione del modo, della specie e dell’ordine (Cfr. 5Th., I-II, q. 85, a. 4). L’amore di Dio al disopra del sé è naturale per la natura integrale; non è più naturale per la natura peccaminosa (ibidem, I-II, q. 109, a. 3). Nell’ordine peccaminoso, un amore estatico, generosamente diffusivo di sé è possibile soltanto per l’infusione della grazia, attuale o abituale, che mette gli uomini in condizione di amare Dio sopra ogni cosa e in ogni cosa, e di amare il prossimo come se stessi.
[15] STh., Suppl., q. 56, a. 4; cfr. III, q. 23, a. 1, ad 3; I-II, q. 28, a. 4, ad 2. Per un’applicazione estensiva di questo principio, cfr. P. KWASNIEWSKI, “On the IdeaI Basis and Fruition of Marriage”, in Second Spring 12 (2010) 43-53.
[16] R. GARRIGOu-LAGRANGE, The Three Ages of the Interior Life: Prelude of Eternal Life, TAN, Rockford 1989, vol. 2, 141; cfr. anche ID., “The Fecundity of Goodness”, in The Thomist 2 (1940) 226-236.
[17] SANT’AGOSTINO, Confessioni, XII, c. 25.
[18] Ogni creatura, purché sia parte di un tutto più grande, è naturalmente incline (e, qualora sia un libero agente, moralmente obbligata) ad amare il bene del tutto—tanto il bene comune intrinseco che è l’ordine dell’universo quanto il bene comune estrinseco che è Dio—più del suo bene come parte. Essendo per sua stessa natura parte di un tutto, o, più precisamente, parte di molti “tutti” concentrici, la creatura è ordinata al tutto non semplicemente come a qualcosa di superiore ad essa e di essa costitutivo, ma come a ciò che, nella sua stessa universalità, è più causativo della sua propria perfezione e a questa integrale. Il trattamento definitivo di questo argomento è quello che dà CH. DE KONINCK, “The Primacy of the Common Good”, che insieme ad altre opere a questa legate si trova in R. McINERNEY (ed.), The Writings of Charles De Koninck, University ofNotre Dame Press, South Bend 2009, voI. 2. Vedi anche M. WALDSTEIN, “The Common Good in St. Thomas andJohn Paul II’’, in Nova et Vetera (ed. ingl.) 3/3 (2005) 569-578; O. BLANCHETTE, The Peifection of the Universe According to Aquinas, The Pennsylvania State University Press, University Park 1992.
[19] Cfr. STh., I, q. 93; cfr. CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, nn. 356-368.
[20] Secondo STh., II-II, q. 25, a. 7, gli uomini probi ritengono che in loro sia primaria la mens rationalis, la rationalem naturam, mentre i malvagi giudicano primaria la naturam sensitivam et corporalem.
[21] STh., II-II, q. 73, a. 1, ad 3; cfr. R. GARRIGOU-LAGRANGE, The Three Ages of the Interior Life, cit. , 399.
[22] Le 9,24-25; Cv 12,25 e paralleli; Mt 13,12; 25,29 e paralleli; cfr. anche la parabola del figlio prodigo (Le 15,11-32), il quale dissipavit substantiam suam vivendo luxunose (“sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto”).
[23] Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, IX, 9.
[24] Cfr. STh., II-II, q. 28, a. 2.
[25] J. MARITAIN, Court traité de l’existence et de l‘existant, Hartmann, Paris 1947.
[26] SANT’AGOSTINO, Confessioni, III, c. 6.11.